Rocco Chinnici
Tra le tante vittime di mafia, dobbiamo ricordare Rocco Chinnici, magistrato Italiano.

Nato il 19 gennaio - stesso giorno di Paolo Borsellino - del 1925, dopo essersi diplomato al liceo classico, si iscrisse a Giurisprudenza, laureandosi nel 1947.
Nel 1966 diventò giudice istruttore a Palermo e pochi anni dopo gli venne assegnato il fascicolo relativo alla strage di Viale Lazio.
Quando, nel '79, divenne dirigente dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, decise di concentrare tutte le sue forze sull'omicidio di Cesare Terranova, suo grandissimo amico. L'anno successivo la Cosa Nostra uccise anche Gaetano Costa, altro suo fidato amico.
Molto turbato da questo ultimo "delitto eccellente", Chinnici diede avvio a quello che sarebbe poi diventato tristemente noto come "pool antimafia". Infatti Chinnici era abituato a scambiare informazioni con l'amico Costa all'interno dell'ascensore del palazzo di Giustizia.
Resosi conto dell'importanza della collaborazione fra gli investigatori-magistrati, capì anche che, con la morte di un giudice, morivano anche tutte le indagini da lui iniziate. Per questo, l'invenzione del pool, è rivoluzionaria, non solo a livello regionale-nazionale, ma anche a livello mondiale.
Mettendo in comune le indagini - anche se un giudice fosse stato ammazzato - le sue personali inchieste sarebbero state proseguite dai colleghi. Senza ripartire da zero.
Diede anche avvio al primo grande processo a Cosa Nostra, con il procedimento del 162.
Partecipando a molti congressi, Chinnici produsse molto materiale orale relativo alla mafia. Fra i suoi molti discorsi, ricordiamo:
"In questo tempo storico [...] il mercato della droga costituisce senza dubbio lo strumento di potere e guadagno più importante. [...] Siamo in presenza di una immane ricchezza criminale che è rivolta soprattutto contro i giovani [...]. Il rifiuto della droga costituisce l'arma più potente dei giovani contro la mafia".
"Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. [...] Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare".
Poco prima di morire, Chinnici confidò agli amici:
"Una mia eventuale condanna morte scaturirà dallo stesso cervello criminale che ha già deciso gli omicidi Terranova, Mattarella, Costa, La Torre".
Venerdì 29 luglio 1983, alle 08:05 di mattina, Rocco Chinnici uscì dal portone del palazzo dove abitava, in via Pipitone Federico a Palermo. Mentre stava per entrare in macchina, una Fiat 126 imbottita con 75 kg di tritolo esplose. Oltre a Rocco, morirono due dei tre uomini della scorta - il maresciallo Mario Trapassi e l'appuntato Salvatore Bartolotta - e il portinaio, Stefano Li Sacchi.
Questa metodologia di omicidio, con un'auto-bomba, fu la prima di una grande serie. I giornali, proprio per l'efferacia inaudita, capitolarono:
"Palermo come Beirut".


A premere il detonatore fu Antonino Madonia, su richiesta dei fratelli Salvo, che vennero definitivamente condannati - ma da morti - nel 2002.
Così scrive, nel libro Collusi, il pm Nino Di Matteo:
"Cosa Nostra aveva agito su input di altri. A dare il via era stato un vero e proprio potentato economico-politico, costituito da soggetti la cui autorevolezza criminale derivava dall'inserimento in un circuito esterno all'organizzazione mafiosa. I cugini Salvo avevano potuto chiedere e ottenere un omicidio eccellente di quel tipo proprio perché rappresentavano lo snodo più importante di contatto e penetrazione del potere politico nazionale".
Sebbene nel 2002 la Corte d'appello abbia confermato molte delle accuse, non è stato chiarito nulla in merito alla "questione del fascicolo scomparso". Infatti Giuseppe Recupero, presidente della Corte d'Assise nel terzo processo per la morte di Chinnici, venne accusato di corruzione e di concorso esterno per mafia. Secondo alcuni, infatti, la mafia gli avrebbe consegnato 200 milioni di vecchie lire, per modificare qualche cosa "scottante" presente all'interno del fascicolo. Questo incartamento, passato poi dal gup di Reggio Calabria a Palermo, finì per essere scordato. Quando, nel 2013, il procuratore Vittorio Teresi scoprì che il summenzionato fascicolo non era mai stato iscritto a ruolo, iniziò un'indagine che venne, però, richiusa l'anno dopo, causa la morte del presidente Recupero.
Borsellino lo ricordò così:
"Non si stancò mai di ripetere, ogni volta che ne ebbe occasione, che solo un intervento globale dello Stato [...] avrebbe potuto sicuramente incidere sulle radici della malapianta, avviando il processo del suo sradicamento".
A lui è stata dedicata una medaglia al valor civile:
"Magistrato tenacemente impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata, consapevole dei rischi cui andava incontro quale Capo dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, dedicava ogni sua energia a respingere con rigorosa coerenza la sfida sempre più minacciosa lanciata dalle organizzazioni mafiose allo Stato democratico. Barbaramente trucidato in un proditorio agguato, tesogli con efferata ferocia, sacrificava la sua vita al servizio della giustizia, dello Stato e delle istituzioni".