Piersanti Mattarella

14.06.2019

Tra le tante vittime di mafia, dobbiamo ricordare Piersanti Mattarella, politico Italiano.

Nato nel '35 da Bernardo Mattarella (anche egli uomo politico, poi indicato come legato alla mafia fin dal dopoguerra), entrò ben presto in Azione Cattolica, ricoprendo importanti incarichi. Entrato poi nella DC, si avvicinò alla corrente di Aldo Moro.

Nel '64, nel bel mezzo del sacco di Palermo - nel quale venne stravolta la bella Palermo, costruendo più di quello che era possibile -, ottenne più di 11mila voti come candidato sindaco a Palermo, diventando consigliere comunale.

Nelle elezioni regionali del '67, fu eletto deputato all'Assemblea regionale di Sicilia.

Nel giugno del '70, denunciò - sul giornale Sicilia Domani - le quattro criticità dell'Assemblea: le pratiche clientelari, l'eccessivo numero di incarichi, la non rotazione degli incarichi - che favoriva il sistema clientelare - e la scelta degli assessori regionali da parte dell'ARS (Assemblea Regionale Siciliana) - che favoriva accordi "sotterranei" -. Poco tempo dopo, sostenuto dalla corrente DC di Aldo Moro, approvò una serie di riforme contro la mafia e a discapito degli esattori privati dei tributi pubblici.

Rieletto per due legislature ('71 e '76) diventò assessore regionale con delega al bilancio, facendo approvare una serie di riforme incisive.

Nel febbraio del '78 fu eletto Presidente delle Regione Siciliana dall'ARS, con 77 voti su 100 - il risultato più alto mai ottenuto -, alla guida di una coalizione di centro sinistra, con l'appoggio esterno del PCI. La sua presidenza può essere descritta con una sola parola: riformatrice. Tra le molte leggi introdotte, quella sull'urbanistica - che ridusse gli indici di edificabilità - e quella sugli appalti - che aumentò la trasparenza nella assegnazione di questi ultimi-.

Piersanti, infatti, resosi conto del legame tra mafia e politica che, specie in quegli anni, andava di molto rafforzandosi, tentò di togliere il marcio dal suo partito. In particolare lottò contro quelle

"persone che non fanno onore al partito stesso".


Dopo l'omicidio di Peppino Impastato (1978) Mattarella, recatosi a Cinisi (città natia di Peppino) per fare propaganda politica, pronunciò un duro discorso contro Cosa Nostra.

Quando il deputato comunista Pio La Torre - anche egli ucciso dalla Cosa Nostra nel '82 - denunciò l'assessorato dell'agricoltura come corrotto additando lo stesso assessore come colluso, Piersanti, anziché difendere il suo sottoposto, confermò quello detto da La Torre, sostenendo la necessità di maggiore trasparenza nella gestione dei contributi agricoli.

In seguito continuò a denunciare le irregolarità, sia all'interno del suo partito sia all'interno della regione Sicilia.

Dopo l'uccisione di Aldo Moro - forse dalle BR, forse dalla CIA -, venne da tutti considerato come futuro capo della DC.

Questo suo grande sforzo di pulizia e di lotta alla criminalità organizzata all'interno del partito, fu però presto troncato. La mattina del 6 gennaio 1980, Piersanti si stava recando alla messa domenicale con la moglie, i due figli e la suocera. Era privo di scorta, poiché desiderava che anche gli agenti passassero del tempo con le loro famiglie. Mentre stava per mettersi alla guida della sua Fiat 132 - parcheggiata in Via della Libertà a Palermo -, venne colpito da vari colpi di pistola alla nuca, sparati da un sicario che si era avvicinato. Il primo ad accorrere fu il fratello Sergio - attuale presidente della Repubblica - che lo porterà subito in ospedale. Piersantì morì mezz'ora dopo il vile agguato, fra le braccia di suo fratello.

L'omicidio venne subito rivendicato da gruppi di estrema destra, ma l'ipotesi non fece molta presa. Lo stesso Sciascia, in un'intervista pubblicata sul Corriere della Sera, alluse a "confortevoli ipotesi", dicendo:

"Non mi pare insomma di trovarmi di fronte ad un delitto di Mafia [...]. Non sono, d'altra parte, d'accordo con coloro che lo vedono come un delitto terroristico a partecipazione mafiosa. O è mafia, o è terrorismo. [...]."

Le indagini proseguirono molto lentamente. Il primo grande passo verso una verità è, di certo, quella requisitoria che, depositata il marzo 1991, costituisce l'ultimo atto investigativo di Falcone. Questi aveva già avuto in passato a che fare con il terrorismo di estrema destra. Falcone puntò fermamente sulla colpevolezza di due membri dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, accusati di esser stati gli esecutori materiali. Sebbene la moglie di Piersanti affermò che fu Fiorvanti a commettere materialmente il delitto, riconoscendolo in una fotografia, egli ne uscì pulito - tanto che, dal 2009, è un uomo libero -.

Solo dopo la morte di Falcone, il delitto venne confermato come di strampo mafioso da Buscetta, che affermò:

«Bontate e i suoi alleati non erano favorevoli all'uccisione di Mattarella, ma non potevano dire a Riina [...] che non si doveva ammazzarlo. [...] In ogni caso [...] fu certamente un omicidio voluto dalla "Commissione"».

E poi, sempre nello stesso interrogatorio, aggiunse:

"nel passato Mattarella era molto vicino a Cosa Nostra (pur senza essere uomo d'onore) anche perché "discendeva" dal padre. In un primo tempo tenne una condotta di "condiscendenza", anche se non proprio di corruzione. [...] Dopo l'omicidio di Michele Reina, Mattarella [...] disse "punto e basta".

Un'agente francese dei servizi segreti ha suggerito, poi, che mafia e P2 collaborarono, sin dal '70, prima per pedinare e poi per uccidere Mattarella, in quanto sosteneva il compromesso storico - cioè l'avvicinamento tra DC e PCI - per togliere i comunisti dall'influenza sovietica.

Il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia dichiarò:

"La ragione di questo delitto risiede nel fatto che Mattarella Piersanti [...] voleva rompere con la mafia, dare "uno schiaffo" a tutte le amicizie mafiose [...]. Attraverso Lima, del nuovo atteggiamento di Mattarella fu informato anche Giulio Andreotti, che scese a Palermo e si incontrò con Bontate Stefano [...]. Egli mi disse solo che tutti quanti si erano lamentati con Andreotti del comportamento di Mattarella, e aggiunse poi: "Staremo a vedere". Alcuni mesi dopo fu deciso l'omicidio Mattarella".

Se il primo grado ritenne insufficienti queste testimonianze, sia il secondo grado sia la Cassazione, stravolgendo il tutto, hanno dato fede al Mannoia. Nel 2003, così scrisse la Corte d'Appello:

"egli (Andreotti, ndr) nell'occasione non si è mosso secondo logiche istituzionali [...]: il predetto, invece, ha, sì, agito per assumere il controllo della situazione, [...] ma lo ha fatto dialogando con i mafiosi [...]. A seguito del tragico epilogo [...], poi, Andreotti non si è limitato a prendere atto, sgomento, che le sue autorevoli indicazioni erano state inaspettatamente disattese dai mafiosi ed a allontanarsi senz'altro dagli stessi, ma è "sceso" in Sicilia per chiedere [...] conto [...]: anche tale atteggiamento [...] non può che leggersi come espressione dell'intento [...] di verificare [...] la possibilità di recuperare il controllo sull'azione dei mafiosi [...] e di salvaguardare le buone relazioni con gli stessi"

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