Gaetano Costa

09.06.2019

Tra le tante vittime di mafia, dobbiamo ricordare Gaetano Costa, magistrato siciliano.

Nato a Caltanissetta nel 1916, si laureò alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo.

Aderì sin da ragazzo al Partito Comunista e, dopo l'8 settembre, si unì ai partigiani in Val di Susa. Finita la guerra, avendo vinto il concorso in magistratura, operò prima presso il Tribunale di Roma, poi alla Procura della Repubblica di Caltanissetta, dove rivestì il ruolo di sostituto procuratore e, successivamente, di procuratore capo. Come in seguito ricordò la moglie, Rita, per correttezza, iniziò il suo lavoro nelle aule di giustizia solo dopo aver consegnato la tessera di partito, a testimonianza del fatto che non intendeva farsi influenzare dalle idee politiche nell'esercizio del proprio lavoro. 

Nel gennaio del 1978 fu nominato procuratore capo di Palermo, ma dovette far fronte a molte resistenze interne al Palazzo. Insediatosi, disse:

"Vengo in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti d'inimicizia, d'interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite".

Persona schiva, riservata, poco incline ai rapporti sociali, si fidava di due soli colleghi: Rocco Chinnici e Cesare Terranova. Come quest'ultimo anche lui aveva colto l'"evoluzione" della mafia, dal gradino agricolo a quello imprenditoriale, dei cosiddetti "colletti bianchi" e aveva cercato, con i pochi mezzi che la giustizia gli aveva allora offerto, di colpire il patrimonio di Cosa Nostra, alimentato dal traffico internazionale di stupefacenti e dal riciclaggio di denaro di provenienza illecita.

Prese in mano l'indagine precedentemente avviata da Boris Giuliano e da Emanuele Basile - mai da questi ultimata poiché uccisi - incentrata sul traffico di droga gestito dalle famiglie palermitane Spatola-Inzerillo-Gambino.

Il 9 maggio 1980, all'interno del Palazzo di Giustizia di Palermo, il procuratore Costa presentò i mandati di cattura nei confronti di quaranta persone, tra cui il capo mafioso di Passo di Rigano Salvatore Inzerillo, ma i suoi sostituti, Pietro Grasso e Giusto Sciacchitano, si rifiutarono di firmare. Lasciato solo continuò il suo lavoro.

Il 14 luglio ordinò alla Guardia di Finanza alcune indagini ad ampio raggio sugli intrecci economici tra mafiosi e complici collusi - in tutta Italia -. Il suo scopo era di trovare una soluzione agli assassini del giudice Terranova e dell'onorevole Piersanti Mattarella. L'indagine venne affidata al colonnello Pascucci di Firenze. 

Ma ben presto anche il lavoro di Costa venne brutalmente interrotto. Gaetano aveva rifiutato qualunque forma di protezione della propria persona, per non mettere a rischio la vita di altri e, mentre passeggiava da solo vicino casa sua, in via Cavour a Pelermo, il 6 agosto del 1980, verso le 19:30, venne raggiunto da una serie di colpi di pistola alle spalle, mentre sfogliava i libri di una bancarella.

Secondo la Cosa Nostra, non fu un assassinio motivato tanto da ragioni d'onore, quanto da un capriccio dell'Inzerillo. Questi aveva precisato a Tommaso Buscetta che non aveva particolari motivi "di risentimento nei confronti del Costa", nonostante i provvedimenti restrittivi che questi aveva adottato contro membri del suo clan. Tuttavia intendeva 

"avvalersi dell'occasione per dimostrare di essere tanto forte anch'egli per potersi comportare allo stesso modo dei Corleonesi".

Per capire questo bisogna andare un po' indietro nel tempo. Dopo la prima guerra di mafia degli anni '60, in cui si affermò la famiglia di Corleone, si ricostituì la "commissione" di Cosa Nostra, composta da varie "famiglie". Quella dei Corleonesi, però, agiva spesso arbitrariamente, senza avvisare gli altri componenti della Commissione. Le uccisioni di Michele Reina (segretario provinciale di Palermo della Democrazia Cristiana) nel 1978; di Boris Giuliano e dell'onorevole Terranova nel 1979, furono appunti decise dai Corleonesi, senza che Bontade, Inzerillo e altri venissero informati.

Anche Piersanti Mattarella e il capitano dei CC Emanuele Basile furono uccisi dai Corleonesi, anche se lo Stato diresse le sue accuse verso Salvatore Inzerillo e la sua "famiglia".

Per rompere la supremazia dei Corleonesi, Inzerillo, a sua volta, ad insaputa della "commissione", fece uccidere Gaetano Costa (questo portò inevitabilmente alla fine della "pax mafiosa" durata circa tre anni, dal 1978 al 1981).

Tuttavia, ad oggi, esecutori e mandanti dell'omicidio del procuratore capo rimangono ignoti.

Così lo ricordò Falcone in un'intervista: 

"Conoscevo Gaetano Costa ma la sua morte non mi sorprese. Intuivo infatti che qualcosa dovesse accadere, era nell'aria. Non c'era stata quella sanatoria che, si sperava, sarebbe avvenuta, i processi già incardinati procedevano. E ci furono ben individuati ambienti cittadini per i quali l'emissione degli ordini di cattura decisa da Costa contro il clan Spatola era stata una doccia fredda".

Il magistrato è stato anche insignito di una medaglia d'oro al valor civile:

"Alto Magistrato, esercitava la propria missione con profondo impegno ed appassionata dedizione, distinguendosi per la particolare fermezza ed il rigore morale, pur consapevole dei rischi personali connessi alla sua funzione di Pubblico Ministero. Sempre ispirato al principio dell'indipendenza della funzione giudíziaria, tenacemente dedicava ogni sua energia a respingere la sfida lanciata dalla criminalità organizzata contro lo Stato Democratico. Vittima di un vile attentato tesogli con efferata ferocia da appartenenti ad organizzazione criminale, sacrificava la vita al servizio della giustizia e delle Istituzioni".

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