Emanuele Notarbartolo

07.07.2019

Tra le molte vittime di mafia, dobbiamo ricordare Emanuele Notarbartolo, politico e banchiere Italiano, prima vittima eccellente di Cosa Nostra.

Marchese di San Giovanni, nacque a Palermo il 23 febbraio 1834, in una famiglia aristocratica palermitana, i Notarbartolo. Crebbe in Sicilia e tre anni dopo si trasferì prima a Parigi e poi in Inghilterra, dove conobbe Michele Amari e Mariano Stabile, due esuli siciliani che influenzeranno molto il suo pensiero. Si interessò molto all'economia e alla storia, diventando così sostenitore del liberalismo conservatore (vicino alla Destra storica).

Nel giugno del 1860 si aggregò alla spedizione dei Mille con Garibaldi, prendendo parte alla battaglia di Milazzo e rimanendo al termine come ufficiale nel regio esercito.

Nel 1865 diventò assessore alla polizia urbana a Palermo, con Antonio Starrabba, marchese di Rudinì, come sindaco.

Il 26 ottobre 1873 venne eletto sindaco di Palermo e durante la sua carica attuò varie opere urbanistiche, tra cui la costruzione del Teatro Massimo di Palermo. Ma soprattutto, cercò sempre di debellare il fenomeno della corruzione alle dogane.

Nel 1876 quando venne nominato direttore generale del Banco di Sicilia. Cercò, con la sua autorità, di riorganizzare il sistema bancario che era stato scosso dopo l'Unità d'Italia creando così una rete capillare di agenzie. Il suo obbiettivo era quello di evitare il collassamento dell'economia siciliana.

Tuttavia, il suo lavoro al Banco di Sicilia iniziò a inimicargli parecchi individui della classe dirigente, i quali erano già uomini politici corrotti e collusi con la mafia locale, dal momento che il Banco di Sicilia rappresentava il punto nevralgico degli interessi finanziari della borghesia mafiosa.

Nel 1882, mentre si trovava nei suoi possedimenti a Caccamo, il marchese fu sequestrato per un breve periodo e venne liberato sotto compenso di 50.000 lire.

Durante il governo Depretis, gli venne affiancato il deputato Raffaele Palizzolo - da tempo in rapporti con la mafia locale -.

La sera del 2 febbraio, in una vettura di prima classe del treno proveniente da Messina - sul quale Notarbartolo viaggiava da solo per sua espressa volontà (temeva per l'incolumità della propria famiglia) -, alcuni ignoti lo uccisero e si liberarono del cadavere gettandolo dal finestrino in un tratto della strada ferrata - tra Trabia e San Nicola - a poche decine di chilometri da Palermo. Lì sarebbe stato ritrovato qualche ora dopo.

Il corpo della vittima, avrebbero rilevato i testimoni, era stato sfigurato da decine di pugnalate inferte selvaggiamente.

Due ferrovieri, un certo Carollo e un certo Garufi, furono individuati come esecutori materiali.

Anche se Notarbartolo con la severità dei suoi criteri amministrativi si era fatto molti nemici, corposi indizi di colpevolezza si addensarono sull'onorevole Raffaele Palizzolo, appartenente ai ranghi dell'alta mafia, tanto che, così protetto e in alto com'era, il figlio di Notarbartolo, Leopoldo, dovette faticare ben sei anni prima di vederlo sul banco degli imputati come mandante del delitto.

Nel dicembre del 1899 fu finalmente aperto a Milano , per "legittima suspicione" (attribuzione di competenza ad un giudice diverso da quello territorialmente competente per garantire il legittimo svolgimento del processo) il procedimento penale a suo carico.

La Corte d'Assise milanese rinviò il caso a Palermo, poi a Bologna dove lì parve concludersi nel 1902 con un verdetto che accoglieva la tesi della colpevolezza di Palizzolo (condannato a trent'anni di reclusione).

L'intera vicenda, in un paese ormai pervenuto alla svolta del governo Zanardelli-Giolitti, aveva assunto le dimensioni di un caso nazionale. Su tutti i giornali, non si parlava d'altro che di mafia e dei suoi rapporti sistematici con la politica.

Giolitti, da lì a poco sceso alla guida del governo, si orientò ad accettare l'idea che se quei potenti signori siciliani volevano la mafia avrebbero potuto pure tenersela a condizione che appoggiassero il suo governo - motivo per cui fu poi definito "ministro della malavita" da Salvemini -.

La Cassazione annullò allora la sentenza dei giudici bolognesi e il Palizzolo, nuovamente sottoposto a processo, questa volta a Firenze, fu frettolosamente assolto per "insufficienza di prove", come si conveniva ad un perfetto mafioso.

Fu così che Palizzolo venne considerato un "eroe" e fu organizzato un pubblico trionfo a Palermo. La vicenda del delitto Notarbartolo si concluse così con triste epilogo: l'apoteosi della mafia e della mafiosità.

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