Cesare Terranova

20.05.2019

Tra le tante vittime di mafia dobbiamo ricordare Cesare Terranova, magistrato e politico palermitano.

Nato il 15 agosto 1921 a Petralia Sottana, comune facente parte del Parco delle Madonie, nel 1946, subito dopo esser tornato dalla guerra, entrò in magistratura.

Fu pretore prima a Messina e poi a Rometta.

Nel 1958 si trasferì dal tribunale di Patti, dove aveva svolto il ruolo di giudice istruttore, a quello di Palermo, dove avviò i primi grandi processi di mafia contro Luciano Liggio (vero cognome Leggio) e altri boss di Corleone. Giunse poi a Marsala ricoprendo il ruolo di Procuratore della Repubblica e svolgendo importanti e difficili indagini.

Prima della fine degli anni '50 le famiglie mafiose non erano collegate da una struttura collettiva. Terranova scrisse che la mafia era:

"un mosaico di piccole repubblichette (cosche) dai confini topografici segnati dalla tradizione".

Per le circa 46 famiglie della provincia palermitana dovevano esservi 15 capi: questa fu la cifra riferita al giudice Terranova da una fonte confidenziale, nel 1965.

Il 10 dicembre 1969 un commando costituito da killer appartenenti alle 'famiglie' Bontade, Liggio e Di Cristina, irruppe negli uffici del costruttore palermitano Moncada, di Viale Lazio, uccidendo Michele Cavataio, detto il Cobra, boss dell'Acquasanta, e tutti i presenti.

Si trattò di una vera e propria carneficina, tant'è che i giornalisti del tempo la definirono "Strage di Viale Lazio". Terranova era consapevole del fatto che la mafia si fosse 'evoluta', avesse cambiato interesse, dirottando l'attenzione dal settore agricolo a quello imprenditoriale. E, nella sentenza, mise per iscritto che la nuova mafia era impersonata da amministratori comunali.

Fu procuratore d'accusa anche nei processi di Catanzaro (1968) e di Bari (1969) contro Liggio (che definiva il giudice "pazzo"), Riina, Provenzano e Bagarella, processi molti degli imputati vennero assolti.

In quegli anni Terranova rinviò a giudizio 54 persone che indicò come componenti della "commissione dei malfattori".

Nel 1972 si candidò alle elezioni per il Parlamento nazionale come 'indipendente' nelle liste del Partito Comunista Italiano, divenendo deputato e ricoprendo tale incarico fino al 1979. Nel ruolo di rappresentante parlamentare divenne membro della Commissione Antimafia (costituita nel 1963, a causa della 'guerra di mafia' che stava imperversando nel capoluogo siciliano) della VI legislatura, insieme a Pio La Torre, sollecitando misure rigorose nei confronti della delinquenza mafiosa che stava allargando il proprio raggio di potere grazie a rapporti con l'imprenditoria e ad una certa cerchia politica, rappresentata da esponenti di spicco della Democrazia Cristiana (Giovanni Gioia, Vito Ciancimino e Salvo Lima).

Del 1976 è una relazione (La Mafia e il Potere Pubblico) dedicata alle infiltrazioni di Cosa Nostra negli apparati comunali, provinciali e regionali siciliani. Essa segnalava le

 "risultanze di un'attività ispettiva che ha verificato un numero assai alto di irregolarità amministrative e di violazioni della legge civile e penale nella maggioranza delle amministrazioni locali". 

Caso emblematico quello del già citato Vito Ciancimino,

"prima assessore all'azienda municipalizzata e ai lavori pubblici, poi capogruppo consigliere della Democrazia Cristiana al comune di Palermo, infine, per un breve periodo, sindaco del capoluogo siciliano. Ciancimino fu, secondo la Commissione, dagli anni '50 agli amni '70, uno dei protagonisti del sacco edilizio di Palermo e della sempre maggiore compenetrazione tra pubblici poteri e famiglie mafiose". 

Finito il mandato parlamentare, Terranova tornò alla magistratura ottenendo dal CSM, il 10 luglio, la nomina di consigliere presso la Corte di Appello di Palermo.

La sua carriera fu stroncata la mattina del 25 settembre 1979. Alle 8:30 Cesare Terranova uscì di casa per recarsi a lavoro. In una Fiat 131 lo attendeva il Maresciallo di Pubblica Sicurezza Lenin Mancuso, a cui era affidato il compito di proteggere il giudice.

Terranova si mise alla guida. L'auto imboccò una strada secondaria ma fu costretta a fermarsi a causa di una transenna per "lavori in corso". Dei sicari affiancarono la 131 e fecero fuoco sul giudice e su Mancuso che sparò con la sua Beretta di ordinanza. Il giudice morì sul colpo, il Maresciallo poche ore dopo, in ospedale.

Qualche anno dopo, nel 1984, il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta riferì al giudice Giovanni Falcone che mandante dell'omicidio Terranova era stato Luciano Liggio, la 'primula rossa' di Corleone, sia per vendetta ma soprattutto per contrastare l'operato del giudice che, già dal 1975, aveva infastidito i Corleonesi.

Una lapide commemorativa venne collocata sul muro del palazzo dove abitava il giudice, ma i condomini protestarono sostenendo che quella lapide faceva diminuire il valore dell'immobile. Così venne spostata una ventina di metri più in là, su un muretto qualsiasi.

Cesare Terranova aveva solo 58 anni (Lenin Mancuso gli era quasi coetaneo). Di lui Leonardo Sciascia scrisse:

"aveva gli occhi e lo sguardo di un bambino. E avrà senz'altro avuto i suoi momenti duri, implacabili; quei momenti che gli valsero la condanna a morte...".

Sandro Pertini lo definì come un

uomo animato da "virile coraggio" ma anche "da infinita speranza, che scaturiva dalla sua profonda bontà d'animo: speranza nel futuro dell'Italia e della Sicilia migliori". 

Nel 2000 la Corte d'Assise di Reggio Calabria condannò all'ergastolo i mandanti dell'omicidio e i sicari.

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